AT Still Dalle aride ossa all’uomo vivente
John Lewis
Andrew Taylor Still scoprì l’osteopatia alle dieci del mattino del 22 giugno 1874; espresse la sua nuova filosofia dell’organismo umano: in questa forma troverete pienamente rappresentato tutto ciò che il cielo e la terra contengono, materia mente e movimento, fusi nella sapienza della divinità. Secondo la filosofia di Still, la materia rappresenta l’anatomia e la fisiologia del corpo, alla cui base agiscono le leggi sconosciute che disciplinano la creazione della forma. La mente rappresenta il pensiero razionale, la memoria, l’immaginazione e l’intuizione nonchè la saggezza insita nel corpo, che coordina miliardi di cellule affinchè producano un’espressione comune. Il movimento, parola che utilizzava come sinonimo di spirito, non indicava solo il movimento con tutti i relativi processi fisiologici e mentali, ma anche l’invisibile potere che anima il corpo.
L’osteopatia non era un mero trattamento vertebrale; a ben vedere, non era affatto un metodo di trattamento. Era piuttosto un principio che stava alla base di tutti i trattamenti. Un principio che poggiava su un concetto a un tempo semplice e profondo: l’organismo umano contiene naturalmente in sè tutti gli elementi necessari per la propria guarigione.
La salute e la malattia non erano due condizioni che si escludevano a vicenda, bensì due estremi di uno spettro continuo tra la fisiologia normale e quella anormale; la vera causa della malattia è da ricercare non nei disturbi di forma, ma nei disturbi di funzione. Non è il modo in cui appare la cellula malata, ma il modo in cui agisce che importa. Su queste basi formulò il primo postulato della sua nuova medicina: un flusso di sangue arterioso sano e privo di impedimenti è vita.
Attenendosi alla sua nuova filosofia anziché alle regole del materialismo scientifico, avrebbe condotto una sperimentazione per verificare la sua ipotesi, ovvero che la malattia era l’effetto fisiologico di un disturbo anatomico. Se con la correzione di una struttura fuori equilibrio avesse ottenuto il recupero della funzione normale, avrebbe dimostrato due cose: che la natura si batte costantemente per esprimere la salute e che il corpo possiede tutti gli strumenti necessari alla guarigione.
Riteneva che rilassando i muscoli e liberando le articolazioni fosse possibile calmare i nervi del sistema simpatico, normalizzare la circolazione (e quindi l’ossigenazione, la nutrizione e l’acidità a livello cellulare) e dunque permettere ai fermenti corporei endogeni di sconfiggere l’infezione.
Davvero le alterazioni strutturali causate da stiramenti, traumi, tensioni posturali e altre sollecitazioni potevano irritare i nervi, modificare la circolazione, turbare la fisiologia e quindi, per definizione, causare malattie? E si poteva da ciò dedurre il corollario per cui la correzione delle strutture sbilanciate avrebbe liberato i nervi, normalizzato la circolazione e ripristinato la fisiologia normale, con un grado di guarigione subordinato al numero di cellule morte e alla capacità rigenerativa della parte interessata? Era una teoria rivoluzionaria. Per curare la malattia, il trattamento non doveva essere indirizzato alla fisiologia, ma all’anatomia.
La pratica clinica era guidata da due principi complementari: il primo, esplicito, era il principio di causa ed effetto e il secondo, implicito, era l’inesorabile pulsione della natura a esprimere la salute.
Still insisteva affinchè ogni paziente venisse trattato con rispetto e considerazione, in quanto essere umano sofferente e non come un insieme di sintomi o segni. Still inoltre ammoniva i pazienti a non restare passivi nell’attesa che gli operatori si sobbarcassero tutto il lavoro, e li esortava a condividere la responsabilità per la loro salute. Non era il medico che apportava la guarigione, bensì la natura e non esisteva nulla che potesse sostituire il sonno, il riposo e uno stile di vita sano. La natura, come i mulini degli Dei, diceva Still, è lenta a macinare ma produce una farina eccezionale.
La padronanza di sè e l’assoluta sincerità erano ritenute virtù imprescindibili per formare il carattere e per interagire con gli altri. Ogni persona era giudice di se stessa e ritenuta responsabile non solo per il proprio comportamento, ma anche per quello di tutti gli altri. Ai bambini veniva insegnato che il Creatore ama tutti senza distinzione; da ciò discendeva che offendere, fare del male o odiare una persona equivaleva a far male a se stessi, mentre fare del bene a un altro e renderlo felice era come far felici se stessi. L’attaccamento ai beni materiali era considerato una debolezza da superare. Gli indiani non concepivano la differenza tra ricchi e poveri, almeno finchè non la videro fra i bianchi, perchè tra loro chi aveva più del necessario donava ai bisognosi, creando così una rete di vicendevole sostegno collettivo, basata sulla generosità e la gratitudine.